A proposito di delocalizzazione
L'uomo a tre dimensioni
di Ettore Gotti Tedeschi
Il lettore forse conoscerà la storiella
di Henry Ford, il quale, dopo avere sopportato un lungo periodo di
conflittualità sindacale, fece progettare e costruire una fabbrica di automobili
totalmente automatizzata. Mostrò poi l'impianto senza operai al potente capo dei
sindacati e gli disse con scherno: "La fermi ora, se ne è capace". Ma il
sindacalista replicò: "Adesso venda lei le auto prodotte, se ne è capace".
Sottintendendo che, se non si produce potere di acquisto, non è nemmeno
possibile vendere.
Il mondo di oggi - globalizzatosi con ritmi troppo accelerati, spesso senza
permettere di concepire e realizzare strategie competitive - è pieno di
contraddizioni che vanno risolte. La spiegazione di queste contraddizioni sta
soprattutto nelle tre dimensioni economiche dell'uomo, ormai in totale conflitto
fra loro.
L'uomo economico è infatti produttore, compratore, investitore. La prima
dimensione è legata al lavoro, che permette di produrre reddito e risparmio; la
seconda alla possibilità di comprare qualsiasi prodotto, realizzato ovunque e al
prezzo più conveniente; la terza alla capacità di investire i risparmi secondo
convenienza.
Evidentemente queste tre dimensioni entrano in conflitto se una persona lavora
in un'impresa di cui non compra i prodotti perché non li trova competitivi, e
nella quale non investe perché essa non offre sufficiente rendimento. Se poi la
stessa persona compra prodotti di un'impresa concorrente a quella per cui
lavora, investendovi magari anche il proprio capitale, la sua azienda è
destinata presto a fallire, lui a restare senza lavoro e di conseguenza a
perdere anche le dimensioni di consumatore e di investitore.
Il mondo intero ha sotto gli occhi gli effetti della delocalizzazione -
soprattutto in Asia - degli ultimi anni, fenomeno che ha prodotto trasferimenti
di capitali e tecnologie, orientati soprattutto a ottenere produzioni a basso
costo, ma senza basarsi su vere scelte strategiche. Ciò ha generato un nuovo
modello economico difficilmente sostenibile, perché ha creato Paesi produttori,
ma temporaneamente non consumatori, e Paesi consumatori, ma non più produttori.
I primi sono entrati nel ciclo economico della crescita, i secondi ne sono quasi
usciti.
Si può certamente scegliere di andare a produrre fuori dalla propria area
economica, ma si deve avere la consapevolezza che nella regione individuata si
dovrà presto anche andare a vendere, perché in quella zona si trasferisce la
capacità di acquisto sottratta ai luoghi dove si intendono chiudere le
produzioni, magari per gli alti costi o per la rigidità del lavoro. Non è
infatti economicamente sostenibile che un'area fornisca soltanto capitali e
domanda di beni, ma non mano d'opera.
È inoltre illusorio pensare che sia sostenibile disporre di tre aree diverse da
gestire: per trasferire il lavoro (perché costa meno), per raccogliere i
capitali (perché sono disponibili), per vendere i propri prodotti (perché c'è
potere di acquisto). Questa strana tripartizione può stare in piedi solo per
brevissimo tempo, perché tutte e tre le scelte sono presto destinate a diventare
instabili e volatili.
Ogni Paese deve invece essere capace di produrre, vendere e attrarre capitali,
almeno in qualche segmento di mercato. Nel mondo globale, così fortemente
cambiato e innovato, non ci si può illudere di essere competitivi in tutto, ma è
indispensabile avere una certa dose di competitività sostenibile. Altrimenti si
rischia di poter quotare in borsa solo l'Empire State Building, la Tour Eiffel o
il Colosseo.
(©L'Osservatore Romano 25 luglio 2010)