Relazione di Vincenzo Bifolchi

Cari compaesani, signore, signori.

 E’ difficile parlare in termini obiettivi del proprio lavoro evitando la trappola dell’autocelebrazione. Comunque, ci provo.

 L’album “Messérë vòglië chentà” che oggi abbiamo il piacere di presentarvi è un’opera corale, la cui realizzazione mette in luce vari talenti, alcuni dei quali già noti, altri che hanno il sapore della scoperta. Fra i tanti aspetti degni di nota di questa realizzazione (l’idea, la finalità, gli autori, la parte più specificamente tecnica, e via discorrendo), mi piace soffermarmi su quello che, per mia personale predilezione ed esperienza, considero centrale: il dialetto. Il dialetto visto sotto il profilo della trasmissibilità, dell’intelligibilità e dell’espressività. Molto si è già detto e scritto su questi argomenti e non è certo questa la sede adatta per sviscerarli un’ennesima volta. Vorrei piuttosto analizzarli nei loro collegamenti con le canzoni contenute nell’album.

 Mi sembra fuori dubbio che, per la trasmissione del dialetto, la canzone presenti un vantaggio innegabile dal punto di vista della memorizzazione: è infatti molto più facile ricordare una canzone, specie se melodicamente orecchiabile, anziché una poesia. Inoltre, la miscela tra versi e musica e la loro interpenetrazione, il tutto facilitano maggiormente la nostra risposta emotiva e quindi il pezzo rimane impresso nella nostra memoria. Anche a prescindere dalla comprensione del testo. Sarà certo capitato a molti di noi di ascoltare con piacere e magari di imparare una canzone senza capire perfettamente il significato di alcune parole.

 Sorge quindi il problema dell’intelligibilità e della comprensione del dialetto. Per il primo aspetto, trattandosi di una lingua essenzialmente parlata, bisogna trovare degli artifici per trasporre in forma scritta dei suoni diversi dall’italiano o, a volte, addirittura ad esso estranei. Esistono vari sistemi per ovviare a questo problema.

Quello che viene subito in mente è l’uso dei simboli dell’alfabeto fonetico internazionale. Ma, a dire la verità, un testo che utilizzasse questo modo di trascrizione apparirebbe più simile a un papiro egizio che a una poesia. Naturalmente esagero intenzionalmente. Grazie ai preziosi suggerimenti della prof.ssa Marra dell’Università di Cagliari, abbiamo deciso alla fine di ricorrere alla classica via di mezzo, utilizzare cioè la grafia italiana arricchita, là dove necessario, di segni che indichino al lettore una pronuncia diversa da quella usuale. Si tratta quindi di una trascrizione non scientifica al 100%, ma che ha il pregio di non appesantire troppo la lettura, pur sottolineando la specificità di alcune parole.

Quanto alla comprensione dei testi, la soluzione più semplice è, a prima vista, la traduzione in italiano. Ma non è proprio così semplice come sembra. Se una traduzione letterale è ancora possibile, con molte riserve, per una poesia, quindi essenzialmente per un testo scritto, per una canzone il discorso si complica, trattandosi di un componimento ascoltato. Di conseguenza, bisogna fare in modo che, ascoltando la canzone e seguendo contemporaneamente il testo tradotto, si rispetti lo stesso ritmo e, se possibile, la stessa musicalità. Ne risulta necessariamente una traduzione piuttosto libera, che serve da semplice canovaccio per capire di cosa si sta parlando e cantando. Tutto ciò non sarà sfuggito agli jelsesi, che avranno senz’altro notato queste discrepanze. Va detto però che l’album ”Messérë vòglië chentà” vuole rivolgersi anche a chi jelsese non è oppure, come avviene per gli emigrati di seconda e terza generazione, a chi ha perso un po’ la familiarità con il dialetto originario. In questi casi succede spesso che queste persone abbiano anche scarsa conoscenza dell’italiano. Ed è stata questa la ragione che ci ha spinti a inserire anche delle traduzioni in francese e in inglese, per le quali valgono ovviamente le stesse considerazioni e riserve che ho espresso prima per l’italiano.

Riguardo all’espressività del dialetto, non penso ci sia molto da dire: basta leggere e/o ascoltare e si percepisce subito con quanta finezza, ma al tempo stesso con quanta concretezza e immediatezza, questo modo espressivo riesce a delineare situazioni e sentimenti, rivestendoli di quella musicalità dal sapore antico che è propria della poesia dialettale.

In conclusione, l’album “Messérë vòglië chentà” vuole essere, oltre che un doveroso omaggio agli autori jelsesi, un modesto contributo alla sopravvivenza del nostro dialetto. Come ogni opera prima, anch’esso è perfettibile e tutti noi che, a diverso titolo, abbiamo partecipato alla sua realizzazione confidiamo che non resti un esperimento isolato e che, soprattutto se sarà gradito al pubblico, ci infonda energia per elaborare nuove proposte che valorizzino o rivalorizzino il nostro folklore, le nostre tradizioni e la nostra cultura popolare.

 

Grazie